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Le stelle sono troppe. Anche le persone.

Alice Attraverso lo Specchio: il Cappellaio Ritorna!

Alice Attraverso Lo Specchio, il sequel Disney di Alice in Wonderland, non ha deluso quelle che erano le nostre aspettative. Ecco la Nostra Recensione!

Sorgente: Alice Attraverso lo Specchio: il Cappellaio Ritorna!

Agonia.

Mi chiedo come riescano ad andare in giro con i suoi sorrisi invisibili,
a convivere con un duro macigno di delusioni incastrato nella gola.
Mi chiedo come facciano ad essere irrimediabilmente grigi
e a sembrare gialli e torridi.
Mi chiedo dove trovino la forza di morire con gli occhi aperti,
ché magari la morte è meno spaventosa quando somiglia al sonno.
Mi chiedo come facciano ad abituarsi alla vita
e a collezionare illusioni come fossero conchiglie.
Mi chiedo come possano riuscire a sentire il rumore dei loro respiri
in mezzo al sordo rumore delle cose inutili e perenni.
Mi chiedo perché debbano continuare, come in un gioco perverso,
a ferire e a ferirsi l’anima.
Mi chiedo quanti di loro si siano accorti che non saranno mai niente
perché qualcuno gli ha strappato i sogni.
Mi chiedo perché non siano destinati a ricevere,
quanto ad ingoiare ciò che detestano.
Mi chiedo come possano vivere nell’odio, coi pugni stretti,
per poi cercare amore.
Mi chiedo che sapore abbiano le loro lacrime,
se questo assomigli un po’ anche al mio.
Mi chiedo dove sia la speranza per me e per loro,
ma so che una risposta non c’è.

Le donne sono capaci di fare tutto.

Anche di rassegnarsi.

«Chi si ferma è perduto.»

Io invece ritengo che sia più giusto fermarmi, visto che non so dove cazzo sto andando.

Selfishness

Immagine

“Selfishness must always be forgiven, you know, because there is no hope of a cure.”

― Jane Austen, Mansfield Park

 

Quel giorno in un taxi.

«Emily, sei una stupida. Una grandissima stupida» affermò la ragazza ad alta voce intanto che riprendeva fiato. Aveva corso per un bel po’ ed era ormai lontana dal museo.
«Certamente, New York non è per tutti.» commentò con un tono più tagliente ed aggiunse:«Anzi, Van Gogh non è per tutti».
Emily aveva quindici anni ed aveva paura del mondo perché lo conosceva bene. Portava sulle spalle l’enorme peso del suo cinismo, il quale, in fin dei conti, era anche la sua saggezza.
Credeva che l’umanità fosse composta da tanti, piccoli esseri egoisti ed opportunisti – non che avesse tutti i torti.
Quel pomeriggio, come tutti i giorni in cui non voleva pensare ai bulli che la torturavano per tutto il tempo, aveva preso un taxi diretto al museo d’arte moderna.
Ogni volta trovava posto su una poltroncina, si sedeva e stava lì, per ore, a guardare La Notte Stellata. La conosceva a memoria, pennellata dopo pennellata.
Credeva che un pezzo della sua anima fosse rimasto intrappolato lì, in mezzo a quei vortici di stelle.
Spesso si concentrava sulle parole che le guide turistiche dedicavano a quel quadro, cercando di dargli una definizione scientifica, completa, e di arricchire la sua visione con termini e sensazioni nuovi. Le capitava anche di sentire alcune parole piccole e vuote, e di perdere il filo osservando la luna gialla.
Certe notti, quando il pensiero di suo padre la attanagliava, cercava di immaginare quel grande albero fiammeggiante per dormire serena.
A volte nutriva il bisogno di distrarsi dai suoi stessi sogni.
Quella volta, un vanesio critico d’arte le si era avvicinato per spiegarle perché ritenesse che Van Gogh fosse inutile. Lei, da brava amante della sua opera, aveva commentato la sua dissertazione con un franco: «Che cazzata!».
Raramente Emily decideva di esprimere la sua opinione e, quindi, di fidarsi dell’umanità circostante… E – puntualmente – sbagliava. La maggior parte delle volte, infatti, riusciva soltanto a dare l’idea di essere arrogante o imbarazzante: insomma, una ragazza da non frequentare.
In sua difesa, non lo faceva apposta. La gente la metteva a disagio. Credeva che stare con gli altri fosse un continuo rischio, una continua scelta tra il fare la cosa giusta e il fare quella sbagliata… E, sentendosi sotto pressione, sbagliava di continuo.
Vedendosi improvvisamente osservata dai turisti allibiti, dalle guide turistiche e dal personale di sicurezza, aveva scelto la via migliore per affrontare l’imbarazzo: la fuga.
Aveva imboccato la porta di emergenza e via, dritta in fondo alle scale.
Inutile specificare che era stata una pessima idea.
Mentre riprendeva fiato, si fece avanti sul marciapiede, intenzionata a prendere il primo taxi disponibile.
Per sua fortuna, non passò neanche mezzo minuto che una piccola auto gialla accostò per farla salire.
Emily si tuffò nella sua fonte di salvezza ma, nello stesso momento, un uomo che proveniva dall’altro lato della strada fece la stessa cosa.
«Potrebbe…» azzardarono all’unisono, rivolti al tassista. Non si erano neanche notati.
Respirando rumorosamente, lei lo guardò: aveva accanto a sé un uomo vestito di tutto punto – lo smoking era celeste. Emily adorava il celeste. -, dal faccione quadrato e le guance rotonde che gli conferivano un’aria decisamente bonaria; un accenno di barba ricopriva il suo mento e la superficie intorno alle sue labbra, unite in un sorriso dolce e sottile. Il naso a patata che troneggiava sul suo viso, poi, era la prova definitiva che la ragazza si trovava davanti ad un uomo buono.
Eppure, l’ultima cosa che lei guardò e la prima che amò fu l’azzurro dei suoi occhi. Erano piccoli, morbidi e penetranti.
«Scusi, non pensavo che il taxi fosse per lei. Scendo subito»  mormorò abbassando lo sguardo. Il suo gesto di cortesia servì a se stessa più che a lui. Dopo l’esclamazione di qualche minuto prima, aveva bisogno di dimostrare alla sua coscienza che sapeva e poteva davvero essere cortese.
«Non preoccuparti. Possiamo fare questo viaggio insieme, se ti va» la rassicurò lui posandole una mano sulla spalla. Le sue mani erano grandi e bollenti, e la cosa non le dispiacque.
«Sono calde» sostenne rivolta a se stessa. Emily amava parlare da sola.
«Come?» . Lui non aveva sentito bene. Il che non era affatto un male, secondo lei.
«Niente» rispose maledicendosi mentalmente. Ma perché non stava mai zitta?
Per rimediare alla stupidaggine detta qualche secondo prima, gli tese una mano ed affermò senza troppo orgoglio: «Piacere di conoscerla. Io sono Emily Weaver».
«Emily… Che bel nome!» osservò il signore prima di stringere la sua calda mano attorno alla manina della ragazza, dopodiché aggiunse: «Il piacere è mio, Emily. Io mi chiamo Kenneth. Kenneth Patterson».
«Anche il suo è un bel nome» si complimentò sinceramente. Perlomeno, non si poteva negare che lei fosse – fin troppo – sincera.
«Per favore, non darmi del lei: mi sento vecchio!» la supplicò Kenneth con un grande sorriso e gli occhi divertiti.
«D’accordo» concluse con un’alzata di spalle. In fondo, non le costava niente.
«Se in tutto questo mi diceste dove devo portarvi, ve ne sarei grato!» sbuffò impazientemente il tassista.
Per un atto di gentilezza, Kenneth scelse di dare la precedenza ad Emily.
Non sapeva perché, ma era interessato a quella ragazzina. Sembrava nascondere un segreto che nessuno – neanche lei, forse – sarebbe mai riuscito a capire. Era sicuramente più matura delle sue coetanee: la sua timidezza era il manifesto della sua razionalità. I suoi capelli corvini, straordinariamente lunghi e molto disordinati, gli fecero pensare che lei non fosse molto attenta all’aspetto fisico; era, però, fiera della piccola criniera che era riuscita ad assemblare, e questo era evidente.
I suoi occhi verdi e chiari erano sinceri e chiusi, silenziosi e attenti. La piccola e tagliente linea dorata che separava le sue pupille dalle sue iridi era molto affascinante.
Il suo labbro inferiore, piccolo e carnoso, era diviso in due da una profonda cicatrice. Mentre la scrutava, lui si chiese se potesse farle ancora male.
Gli piaceva tirare fuori il meglio delle persone, farle sorridere e lasciare che si raccontassero spontaneamente; ecco perché cominciò a farle una serie interminabile di domande.
«Perdonami se ti sembro indiscreto, ma… Quanti anni hai?»
«Quindici. E tu?»
«Quindici? Te ne avrei dati venti…» ammise soffermando lo sguardo sulle sue scarpe da tennis. Erano rovinate e sporche. Chissà quanto doveva aver camminato con quegli affari?
Sospirando, confessò: «Ne ho quaranta».
«Davvero? Sembri molto più giovane!» commentò lei. Non seppe dire perché, ma quella notizia le provocò una sorta di demoralizzante tristezza.
«Stai andando a casa?»
«Sì, mia madre mi sta aspettando. Tu dove stai andando?»
«Anch’io sto andando a casa. Oggi ho passato una giornataccia al lavoro…» disse lui scuotendo la testa con una smorfia che la fece ridere.
La sua risata era delicata e spontanea, oltre che molto musicale. Se avesse dovuto dare un colore alla risata di Emily, Kenneth avrebbe scelto il color pesca. Amava dare un colore a quello che non poteva vedere. Viveva di sinestesie.
«Che lavoro fa tuo padre?» le chiese senza pensarci. Forse era una domanda troppo seria.
«Io… Non lo conosco. So che lavora in una banca molto prestigiosa e mi piacerebbe fare il suo stesso lavoro per conoscerlo» raccontò Emily, per poi aggiungere: «Mia madre, invece, lavora in un’agenzia di viaggi e il suo compagno è imprenditore. Tu sei sposato? Hai dei figli?».
Non voleva parlare della sua vita o degli incubi che faceva continuamente su suo padre, tanto meno di come il suo amore unilaterale per lui stesse contaminando la parte più importante della sua vita, quella dedicata ai sogni.
«No, non sono sposato e non ho figli. Sono uno scapolo che beve ogni tanto e che passa il sabato sera a guardare le partite di baseball… A proposito, tu sai come distinguere i tizi rossi da quelli blu? Sono anni che seguo il baseball, ma non l’ho mai capito» affermò lui con un’aria innocente. Lei rise di nuovo.
Kenneth osservò i suoi denti. Erano piccoli e perfetti. La cicatrice spariva quando le sue labbra si distendevano in una risata spensierata.
Ovviamente conosceva bene la differenza fra i tizi rossi e quelli blu. Voleva solo farla ridere, sentire il color pesca invadere quel taxi piccolo e sgangherato.
Non era il caso di chiederle altro.
Scherzarono per tutto il tempo. Emily non si era mai sentita tanto a suo agio con una persona.
Quando lei arrivò a destinazione, non voleva più scendere. Ebbe quasi la tentazione di chiedere il suo numero di telefono, ma la sua razionalità la fermò: si era fidata dell’umanità, aveva conosciuto Kenneth ed era andata alla grande. Perché rovinare tutto?
E poi, lui aveva quarant’anni, una vita e un lavoro. Non aveva tempo da perdere con le sciocchezze.
Pensando che il taxi gli sarebbe costato un occhio della testa, allungò venti dollari al tassista, decisa a pagare il suo, ma Kenneth la fermò.
Sentendo la sua mano calda attorno al proprio braccino freddo, spalancò gli occhi.
«Non preoccuparti, pagherò io anche per te» le spiegò con dolcezza.
«Ma ti costerà caro! Voglio pagare la mia parte» esclamò sbattendo i venti dollari sul palmo della mano del tassista.
Vedendo tanta bruschezza, lui esplose in una risata. Era gioviale, fresca e un po’ asciutta. Gli piaceva pensare che fosse di un giallo aspro, anche se si avvicinava di più al color glicine.
«Ciao, Kenneth. E’ stato un piacere conoscerti»
«Sono felice di averti conosciuta, Emily. Arrivederci».
Quella notte, Kenneth non dormì bene. Pensò per tutto il tempo a quella risata color pesca, al sogno corrotto di quella ragazza in cerca d’amore che aveva messo da parte il suo cinismo per essere, con lui, qualcuno che neanche lei conosceva.
Emily, invece, sognò un completo celeste e un paio di labbra sottili che emettevano una risata color glicine… Per la prima volta dopo tanto tempo, non ebbe bisogno di pensare a La Notte Stellata per addormentarsi.

Finto cinismo che va di moda. — Così come sei.

Ci piace proprio così tanto urlare ai quattro venti che l’amore non fa per noi o che non esiste, che è frutto di leggende metropolitane di cui ne hai sentito parlare negli speciali di “Mistero” e che è tutta una mossa pubblicitaria della Perugina per vendere deliziosi cioccolatini che, tra l’altro, fanno anche ingrassare. Quindi […]

via Finto cinismo che va di moda. — Così come sei.

Il mio è un amore viscerale.

Le persone normali sentono con il cuore.
Io sento con le viscere.
Può darsi che le mie emozioni siano rudi, primitive, radicali, ma non posso farci niente: provengono da lì e da nessun’altra parte.
Se sto bene sento il mio stomaco sobbalzare al ritmo della mia risata, la quale, prontamente, mi rimbomba nelle orecchie.
Se qualcuno o qualcosa mi piace al primo impatto, sento uno strano calore che nasce dalla mia pancia e poi si diffonde in tutto il mio corpo, facendomi sorridere e stare bene.
Se sono triste non mangio, perché il mio stomaco diventa un blocco di cemento e non vuol sentire ragioni: così, le mie emozioni si autoinfliggono una catarsi.
Se sto male e credo di non potercela fare a sopportare la mia vita, vomito.  Spesso le mie viscere rifiutano il mio più grande malessere ancor prima che io mi accorga di soffrire.
Il mio è un amore che parte dallo stomaco. Può essere compatto, destabilizzante, forse anche poco malleabile, ma è intenso e sincero, di quella sincerità che lascia senza parole. Magari non è puro come quello che proviene dal cuore, ma c’è, sale fino al cervello e mi scuote perché vuole essere notato, come un bambino che piange e strilla.
Il mio è un amore viscerale, di quelli che ti spingono finché non cadi e ti fanno piangere fino al prosciugamento.
Sentire con le viscere è più complesso, più completo. Sentire con il cuore non porta molto lontano.

Breve storia di una condanna.

1900.
Dopo un lungo parto, marito e moglie si guardarono in silenzio.
Nei loro occhi non c’era dolore, né gioia: soltanto paura.
Ai due dissero: «E’ una bambina».
Il loro mondo crollò improvvisamente.

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